La sanità dell’Alta padovana. Un’eccellenza a rischio.

Sono davvero numerosi gli esempi concreti che potrebbero aiutarci a comprendere quanto le politiche della Giunta leghista di Zaia abbiano già danneggiato la sanità veneta. Il caso dell’Alta padovana, probabilmente, è il più clamoroso.

La nostra Regione, prima della riforma sanitaria di Azienda Zero, contava su un modello organizzativo efficiente ed integrato, fondato su aziende socio-sanitarie con bacini di utenza relativamente piccoli e nelle quali erano inclusi sia i servizi territoriali che ospedalieri, con funzioni fortemente integrate del sociale, in stretta connessione con le deleghe dei Comuni. La presenza di una organizzazione molto articolata, con distretti territoriali, garantiva anche alla Conferenza dei Sindaci un vero ruolo di programmazione e di controllo.

Su questo sistema virtuoso, eredità proficua della tradizione veneta, si è abbattuta la riforma regionale del 2017, che non solo ha ridotto il numero di ULSS – da 22 a 9 – perseguendo una finalità di mero risparmio economico, ma ha anche conferito ad Azienda Zero un potere centralizzato, e assoluto, di decisione.

Il risultato è che le 9 ULSS del Veneto sono oggi estremamente eterogenee tra loro per popolazione, territorio e numero di ospedali e molte eccellenze, come quella dell’Alta padovana, sono state gravemente ridimensionate.

In primo luogo in riferimento all’integrazione socio-sanitaria. Il distretto del camposampierese, infatti, grazie ad amministratori pubblici lungimiranti e a dirigenti della sanità competenti ed operosi, aveva sviluppato negli anni un modello eccellente, capace di offrire servizi innovativi soprattutto in ambito sociale, con un’intelligente gestione associata che riusciva a garantire risposte di qualità pur con risorse economiche ridotte. Oggi questo patrimonio si sta progressivamente disperdendo, a causa della standardizzazione e omogeneizzazione a livello provinciale dei rapporti tra enti locali e aziende sanitarie.

In secondo luogo, si sta realizzando nel tempo un progressivo impoverimento delle strutture del territorio e dell’ospedale di Camposampiero in particolare. Sono diversi i reparti già chiusi e trasferiti, o in procinto di esserlo: da chirurgia a ostetricia, da ginecologia a cardiologia. Le coraggiose battaglie del sindaco di Camposampiero Katia Maccarrone rappresentano le preoccupazioni di tantissimi cittadini. E anche l’ultima programmazione ospedaliera conferma questa tendenza, figlia più di una logica politica che vuole premiare le “amministrazioni locali amiche”, che le reali necessità dei territori. Il progressivo smantellamento dei reparti di specialità generaliste e di un ospedale a tutti gli effetti di comunità, con un bacino di circa 100.000 persone, è un danno pesante che questo territorio non merita.

Mai come in questo anno, infine, abbiamo compreso l’importanza dei servizi di prossimità: sia Camposampiero che Cittadella, dopo aver offerto un supporto rilevante alla cura dei pazienti Covid, devono tornare quanto prima alla attività ordinaria, rivedendo la programmazione esistente, formulando un piano che sia in grado di riassorbire le visite, le cure e le terapie lasciate indietro in questi mesi, costruendo modelli organizzativi finalizzati realmente alle persone e non ai risparmi.

Infine, ma questa riflessione vale per tutto il comparto sanitario, penso che vada profondamente ripensato il sistema, partendo innanzitutto dalle luci e dalle ombre che la pandemia ha messo in evidenza. L’idea di distribuire sul territorio, o tentare di farlo, reparti super specializzati, preferendoli ai presidi di medicina tradizionale credo sia un errore da cui tornare indietro. Così come indietro si deve tornare rispetto alle politiche dei tagli, che hanno costantemente indebolito il sistema sanitario locale. Su questa necessità di ripensare il sistema sanitario regionale ci faremo promotori in Consiglio regionale, convinti che i tempi siano maturi per una profonda revisione della riforma sanitaria del 2017.