Dalla Regione risposte inadeguate alla crisi economica

Nel contesto complicato, per usare un eufemismo, che appare evidente anche solo da una lettura sommaria dei principali dati economici nazionali e regionali, la Giunta propone all’Aula, per la prima volta in 5 anni, un provvedimento di politica economica per intercettare investimenti esteri.

Molto bene, perché l’attività di attrazione degli investimenti, per intercettarne le intenzioni e, possibilmente, orientarne le scelte, è da decenni una pratica consolidata di politica economica pubblica regionale.

Ma un vantaggio competitivo, di un territorio, di un comparto, di una filiera, di una specializzazione, non si improvvisa, non capita per caso. Va costruito nel tempo e per tempo.

In questo senso c’è il primo limite di questa proposta, ovvero che appare come una iniziativa isolata, indebolita dall’assenza di strutturali e definite politiche industriali regionali, che siano in grado di incidere positivamente sulla crescita economica e sulla produttività dei fattori, in grado di influenzarne la propensione all’innovazione e alla creazione della conoscenza.

Il secondo problema è che non fa i conti con alcuni limiti strutturali tipici del nostro sistema produttivo, primo fra tutti la dimensione aziendale. Sul piano della competitività e della produttività lo slogan del “piccolo è bello” è sbagliato.

Ma il tema più rilevante riguarda la redditività. Perché nel Nord Est ci sono aziende eccellenti, senza dubbio, in particolare quelle di grandi dimensioni, che però non svettano. I ricavi medi delle “aziende star” a livello nazionali sono di circa 430 milioni. Per quelle emiliano-romagnole raggiungono i 760 milioni. A nord est i ricavi crollano a 374 milioni, quasi la metà della regione contermine.

Non è un caso, a conferma di ciò, che il Veneto – insieme a FVG e Marche – è la Regione che ha subito negli ultimi anni i processi di delocalizzazione più intensivi di altre.

Con questo provvedimento ci si preoccupa principalmente, ed esclusivamente, di intercettare generici investimenti esteri dai mercati internazionali e non ci si interroga su quale genere di investimento possa portare sul territorio competenze e abilità specifiche, adatte all’ecosistema regionale e alle filiere tipiche del territorio. I casi Intel e Silicon Box raccontano proprio di questo limite.

Se anche oggi che, pure in ritardo, provando a muovere qualche passo, sbagliamo strada, il divario tra noi e le altre regioni rischia di divenire incolmabile.

In Veneto le imprese sono cresciute dal basso, grazie alla qualità di molti imprenditori che hanno saputo farsi spazio. Ma questa intraprendenza non è stata adeguatamente sostenuta da scelte politiche, perché le istituzioni si sono limitate ad assecondare il mercato. Tanto che, di fronte alla smaterializzazione delle filiere, in particolare nella manifattura, le nostre imprese si sono trovate, sole, a dover competere in mare aperto, senza protezioni e sostegni.

E non a caso oggi, in Veneto più che altrove, la manifattura fatica e i distretti che un tempo erano i nostri punti di forza oggi arrancano: la moda, il tessile, il calzaturiero.

Oggi siamo ancora in questa dimensione. Non vedo alcun passo avanti.


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