Ambiti Territoriali Sociali: e ora cosa succede?

L’istituzione degli Ambiti Territoriali Sociali è diventata legge. Si tratta di un passo importante, che, seppur con grave ritardo, definisce una nuova dimensione organizzativa e una nuova governance dei servizi sociali.

Gli ATS, infatti, saranno il nuovo punto di riferimento, sul piano programmatorio, organizzativo e gestionale, delle funzioni sociali e assistenziali oggi in capo agli enti locali.

Una legge che riguarda, dunque, direttamente i Comuni che si dovranno misurare con questa novità normativa per garantire in forma associata i diritti sociali e le prestazioni essenziali. Siamo di fronte ad un cambiamento sostanziale del modo di affrontare i bisogni e di pianificare i sostegni che coinvolgerà direttamente gli amministratori locali.

Già da qualche anno i Comuni si sono spesso attivati con le gestioni associate per l’erogazione di alcune specifiche prestazioni, pensiamo, ad esempio, alle azioni di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. Da oggi, però, quel metodo diventerà l’ordinario e si estenderà a tutte le prestazioni sociali.

Del resto, l’idea che per garantire i diritti sociali i limiti territoriali comunali andassero superati e che la gestione associata fosse necessaria risale al 2000, quando, con la legge 328, vengono formalmente istituiti gli Ambiti e viene assegnato alle Regioni il compito di determinarli.

Sono passati 24 anni. E mentre attorno a noi le altre Regioni si attrezzavano per tempo, consolidando procedure e progettualità, il Veneto rimaneva al palo.

Una riorganizzazione, attesa da tempo, a cui il Veneto arriva tardi e per ultimo, e con un intervento legislativo limitato sul piano sistemico e zoppicante sul piano degli strumenti in campo.

Sul piano generale dell’impianto, infatti, permangono ancora profonde criticità, prima fra tutte quella dello strutturale sottofinanziamento. Ma anche, proprio per la genericità di alcuni profili, questa legge appare come una occasione persa, l’ennesima grande incompiuta di una riforma organica delle politiche sociali in Veneto.

Per queste ragioni, malgrado un lavoro serio e utile in fase emendativa, in Commissione prima e in Aula poi, e pur con la consapevolezza dell’importanza di questa legge, attesa da molti anni, dobbiamo registrare che sono ancora troppi i nodi che non vengono chiariti e affrontati, troppi i dubbi sulla capacità reale che avremo di rispondere ai bisogni e alle fragilità.
                                         

Qui puoi ascoltare il mio intervento introduttivo

Un primo tema da affrontare riguarda la dimensione dei futuri ATS: troppo grandi per poter realizzare pienamente la necessaria presa in carico di prossimità e troppo diversi tra loro per poter garantire uniformità e omogeneità delle prestazioni erogate.

Il richiamo, come riferimento, ai Comitati dei Sindaci di Distretto esistenti per definire l’estensione dell’ambito è un’imposizione troppo stringente, che non tiene conto delle necessità dei territori e che porta il Veneto ad essere una delle Regioni in Italia con il maggior numero di abitanti medio e il maggior numero di Comuni per ambito.

Oltre 230.000 abitanti per ATS, in media, è un livello che difficilmente renderà possibile la progettazione di un welfare di prossimità, che si allontana dalla dimensione ottimale indicata dal DM 77, che pone l’asticella ai 100.000 abitanti.

Aver ottenuto, grazie ad alcuni emendamenti proposti dal Gruppo PD, che questi perimetri possano essere rivalutati nel futuro ed eventualmente ridotti, ci sembra un punto importante, che però, per essere realizzato, deve prevedere la costruzione dal basso di una consapevolezza nuova degli amministratori locali, su cui ci dobbiamo impegnare anche come comunità politica.

E aver ottenuto la garanzia, grazie all’approvazione del nostro Ordine del Giorno, che per Padova e Provincia, in deroga a quanto stabilito, ci saranno 5 ATS invece che 3, ci sembra importante.

Qui puoi leggere il testo del nostro ordine del giorno



 Un secondo problema riguarda lo strumento attraverso il quale le gestioni associate si realizzeranno. È indiscutibile, a fronte della complessità e dell’estensione dei bisogni, che i singoli enti locali da soli siano troppo piccoli e che la forma associata dei Comuni sia l’unica via per adempiere efficacemente. Anche su questo fronte, però, l’approccio della Giunta non ci ha convinti.

L’imposizione dall’alto delle forme associative preferibili riduce, a nostro avviso, la capacità dei Comuni di determinare in via autonoma la forma, tra quelle possibili (convenzione, unione, consorzio, azienda speciale) che meglio si adatta alle caratteristiche del proprio territorio e che sia in grado di garantire una organizzazione idonea e stabile alla risposta ai bisogni.

Anche su questo punto abbiamo ottenuto alcuni importanti risultati, da un lato ribadendo che l’unione dei Comuni può essere uno strumento utilizzabile, laddove sia ritenuto preferibile dai Comuni, e dall’altro che qualora si scelga l’Azienda speciale, la sua natura possa essere esclusivamente pubblica, eliminando il rischio della privatizzazione dei servizi anche in ambito sociale.

Infine, dopo un confronto non semplice, abbiamo convinto l’assessore Lanzarin a tornare sui suoi passi, concedendo ai Comuni capoluogo di mantenere la convenzione quale forma di gestione associata. Una soluzione largamente auspicata dal Comune di Padova che, grazie a questa modifica, potrà continuare a lavorare con uno strumento efficacie di risposta ai cittadini.



Ci preoccupava anche molto la volontà, proposta dalla Giunta, di far entrare il privato for profit nei nuovi ATS. Non perché non riconoscessimo le possibili collaborazioni virtuose che anche attraverso l’apporto delle società benefit potrebbero generarsi, ma per una questione seria di ruolo da esercitare.

Perché il pubblico e le istituzioni hanno il compito di progettare e pianificare la risposta sociale, possibilmente in collaborazione con il Terzo Settore, il privato for profit può partecipare alla fase della gestione e dell’offerta della prestazione ma non in quella strategica della progettazione, proprio per la natura pubblica del diritto essenziale da garantire.

Anche su questo, con l’approvazione di un emendamento chiesto da noi, siamo riusciti a mettere ordine, garantendo il protagonismo del Terzo Settore, insieme a Comuni e ULSS, nella programmazione dei servizi, e limitando la presenza del privato alla realizzazione delle progettazioni.


 
Sappiamo quanto una parte del ritardo accumulato nella definizione degli ambiti dalla Regione in questi 24 anni sia stato in parte compensato dalla tradizione del Veneto dell’integrazione socio-sanitaria. 

Questo elemento ha sempre consentito a Ulss e Comuni di organizzare le prestazioni insieme, con gli enti locali che agivano in forma associata delegando, di fatto, alle aziende sanitarie i servizi socio-sanitari. Considerando infatti che la persona da prendere in carico spesso somma necessità sia sanitarie che sociali, l’erogazione venivarealizzata da un unico soggetto che, insieme, garantiva la cura sanitaria e il bisogno sociale.

Oggi questa distinzione di compiti viene rivista, senza che siano chiare le forme della nuova modalità di integrazione tra competenze degli enti locali e quelle del sistema sanitario. Il pericolo che si intravede è il tentativo, sempre per ragioni di cassa, di scaricare sui Comuni una parte delle prestazioni oggi in capo alle ULSS, rimarcando la separazione tra le responsabilità di presa in carico alle ULSS per quelle di tipo sanitario e agli ATS per quelle di natura sociale. Senza occuparsi del fatto che spesso, ovviamente, le due dimensioni, quella sanitaria e quella sociale, convivono nel medesimo bisogno e non sono così banalmente spezzettabili.

Questo è il punto davvero più problematico, rispetto al quale rimane la preoccupazione più seria.

La Giunta impegna pochi, anzi pochissimi soldi. Un milione e mezzo quest’anno e 2 milioni nel biennio successivo, e poi più nulla. Parliamo di circa 80 mila euro ad ATS. Una cifra oggettivamente insufficiente a garantire la sostenibilità di una nuova struttura che accompagni la gestione associata.

Su questo fronte, infatti, la questione è duplice. Da un lato le risorse non sono minimamente sufficienti per partire. Ma dall’altro, non prevedendo risorse strutturali, svelano l’obiettivo vero della Giunta: i Comuni si dovranno arrangiare con risorse proprie a gestire la nuova struttura organizzativa. E questo è davvero inaccettabile.

Perché, se è vero che la nuova organizzazione dovrebbe aiutare, tramite la gestione associata, ad una risposta ai bisogni più efficace, è altrettanto vero che non può essere fatta senza soldi o a risorse invariate.

Gli ATSper funzionare bene hanno bisogno di una struttura idonea e robusta.

E i bilanci dei Comuni non sono in grado di sostenere da soli questi nuovi costi. Con il rischio concreto che si troveranno costretti a tagliare servizi, trasformando quella che doveva essere un’opportunità di crescita in un errore drammatico.